(di Andrea Cacaci) – Febbraio 2021
L’uso della luce come materiale dell’architettura è declinabile in vari modi. Da un lato c’è il modo degli artisti: un esile filo conduttore unisce i lavori di Dan Flavin, James Turrell e Olafur Eliasson, tutti giocano con l’ego di noi spettatori. Ci trasportano in un mondo che altrimenti sarebbe sconosciuto. Per dirla con le parole di Antoine de Saint-Exupéry ci svelano quell’essenza invisibile ai nostri occhi; le loro opere mostrano la realtà che non riusciamo a vedere pur essendo di fronte a noi.

Dall’altro lato c’è il modo degli architetti che usano la luce come strumento per dare forma allo spazio. L’architettura è la messa in scena della dialettica tra luce e volume; si va oltre la funzione di illuminare fino a giungere alla scoperta della specificità di un luogo. La ricerca dell’equilibrio tra la materia solida e la trasparenza delle aperture è uno dei punti di partenza del costruire nel mondo occidentale (un esempio emblematico è il Pantheon a Roma, la cui meraviglia è ben nota a tanti). L’oggi è invece segnato dagli sviluppi tecnologici delle costruzioni in acciaio e vetro che, da un lato, hanno consentito maggiore libertà espressiva all’architettura, ma dall’altro hanno anche mutato il ruolo della luce, relegandola ad un aspetto secondario. Il trattato di Paul Scheerbart sull’”Architettura di vetro” scritto nel 1914, col suo inno alla trasparenza ha condotto a prodotti architettonici dal sapore integralista: la Maison de Verre di Pierre Chareau, la Casa Farnsworth di Mies e la Glass House di Philip Johnson ergono la luce a materia principale se non unica del progetto. Tuttavia l’equazione: più trasparenza = luce migliore, sostenuta in questi lavori è chiaramente incompleta e fuorviante.

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Sarà Peter Zumthor a svelarci l’essenza della realtà. Un suo breve scritto del 2005 riassume già dal titolo la sua posizione: “Di quanta luce ha bisogno l’uomo per poter vivere e di quanta oscurità?”. Il suo progetto per la Kunsthaus nella cittadina austriaca di Bregenz è una vera “casa di vetro” che fa della luce la protagonista principale della costruzione; principale ma non unica, perché noi abbiamo bisogno della luce ma anche dell’oscurità, ed è solo tornando alla primigenia natura dell’architettura, fatta di trasparenza e materia, che riusciamo a rispettare questo equilibrio.

Uno scatolone in vetro opalino che racchiude tre scatole di cemento col coperchio in vetro. Questa la scarna descrizione costruttiva dell’edificio di Zumthor.

Qui il compito del vetro non è quello di trasmettere ma di accompagnare la luce. La trasparenza si trasforma in presenza: la luce è fisica, visibile e tangibile; l’architettura è dinamica e mutevole, è influenzata dal passaggio del tempo: le ore e le stagioni ne definiscono l’immagine. Una sola visita non ne svela l’essenza. La Kunsthaus richiede più visite ripetute per poter essere colta nella sua intima natura. E’ solo in alcuni momenti che i nostri occhi riusciranno a catturare tutte le gradazioni cromatiche del cielo all’interno delle stanze del museo, ad esempio al tramonto col rosso dell’ovest fino all’azzurro intenso del cielo del nord.



Bibliografia e link:
http://www.fondazioneprada.org/project/chiesa-rossa/
Paul Scheerbart: Architettura di vetro, Adelphi.
Peter Zumthor, Jon Mathieu, Ivan Beer: Di quanta luce ha bisogno l’uomo per poter vivere e di quanta oscurità? Ed. Compositori.
Peter Zumthor: Kunsthaus Bregenz, KUB.
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