(di Cristina Polli) – Luglio 2022
“Non siamo solo circondati dal colore, noi stessi siamo colore.”
David Batchelor
I colori che vediamo non sono i colori del mondo, ma i colori della mente, come suggerisce David Scott Kastan; in effetti sappiamo che il colore è una sensazione cerebrale e che il nostro sistema percettivo interpreta ciò che stiamo osservando.
La ricerca delle moderne neuroscienze negli ultimi decenni ha dimostrato inoltre come la visione sia un processo multisensoriale e multimodale. Quando vediamo non si attivano solo le aree visive del cervello, ma anche circuiti cerebrali viscero-motori, sensori-motori, affettivi. Vediamo attraverso gli occhi, ma non solo, siamo coinvolti nell’atto percettivo anche attraverso il sistema motorio, tattile, emotivo. Con la scoperta dei neuroni specchio da parte di un gruppo di ricerca del dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma guidato da Giacomo Rizzolatti, è stato introdotto il concetto di simulazione incarnata (Vittorio Gallese), nozione che si applica alla nostra percezione di oggetti tridimensionali e a quella di spazio e che, come afferma Harry Francis Mallgrave: “…ha implicazioni enormi per i progettisti, perché suggerisce di coinvolgere ambienti costruiti con il nostro corpo intero su una moltitudine di livelli mentre percepiamo l’esperienza. In passato abbiamo ipotizzato che il processo visivo avesse luogo concentrandosi sui dettagli visivi di ogni scena, ma ora sappiamo che il corpo nel suo insieme coglie l’essenza di qualsiasi situazione quasi immediatamente, ossia, prima che aspetti della scena entrino nel focus visivo. Lo facciamo in modo multisensoriale attraverso varie modalità. La percezione non è qualcosa che ci succede passivamente: è qualcosa che facciamo o costruiamo dalle nostre esperienze.”
L’osservazione di ogni scena o scenario, dove il colore viene visto e registrato per primo, è quindi di fatto molto di più di un tragitto stimolo-retina-corteccia occipitale. Ogni esperienza percettiva, come dice Vittorio Lingiardi, è un’esperienza del corpo.
Il colore diviene un elemento fondante nella lettura della scena, dove tutto – anche noi stessi – è sempre in relazione con qualcos’altro. Le sue caratteristiche polisensoriali e l’efficacia nel condurre messaggi trasversali, funzionali o informativi, biologici e culturali, ci possono essere d’ausilio non solo nella fruizione e gestione dello spazio abitato, ma anche nel creare legami affettivi, emozionali con esso.

Come il colore diventi un driver comunicativo efficace nella narrazione delle emozioni collegate all’ambiente, ce lo dimostrano anche la letteratura e la cinematografia.
Nel film “Pleasantville” di Gary Ross, del 1998, per esempio, il colore appare come forte elemento di rottura in un ambiente sicuro, limitato e prevedibile, dove non ci sono sorprese e dove tutto è vissuto solo nelle sfumature dei grigi. Pleasantville è una cittadina fittizia degli anni Cinquanta, dove i protagonisti del film, i gemelli Jennifer e David, vengono magicamente trasportati e dove non esiste il colore. Nell’istante in cui iniziano a subentrare le emozioni – Jennifer seduce Skip il capitano della squadra di basket – e di conseguenza i desideri e le passioni, il villaggio gradualmente si tinge di colori. Anche i personaggi, quelli che si affidano alle emozioni, diventano colorati. Alla fine tutto si colora dando un messaggio di possibilità e sfide da provare, di speranze che erano state negate fino a quel momento dal grigiore totale.


Stessa cosa accade nel testo “Flatlandia”, dove Edwin A. Abbott descrive una società monotona, regolare, crudele e gerarchica, nella quale gli abitanti – elementi geometrici piatti – sono privi di colore. Anche in questo caso, passando attraverso la Rivoluzione del Colore, come viene descritta, il colore erompe, scatena reazioni, cambia, rivoluziona, si aggiunge alla realtà bianca e nera, crea il caos, ma soprattutto favorisce emozioni e rende liberi. Alla fine però viene messo al bando, proibito, proprio perché democratico, distruttore di quelle gerarchie sociali e di quelle distinzioni che imponevano un ordine totalitario, strutturato, impositivo.
Nei casi citati si passa da uno stato di monotonia grigia, bianca e nera, alla policromia.
L’assenza di colore rende gli ambienti impoveriti, tristi, incapaci di creare emozioni, impossibili da vivere come appaganti; o addirittura il grigiore attiva una sorta di assuefazione e cecità sociale, dove l’apatia, la noia, la ripetizione vengono scambiate per ineluttabile finta serenità. Non esiste il libero arbitrio, la dimensione della scelta, il cambiamento. La libertà, l’emozione, invece, appartengono al mondo cromatico. Il colore diventa espressione del corpo che si ribella, che decide di essere vivo.
Dopotutto se pensiamo alle reazioni che il nostro corpo ha, in risposta a fattori esterni scatenanti, parliamo subito di colore: la timidezza o l’imbarazzo, non ci fanno forse diventare rossi in volto? Fisiologicamente, arrossiamo quando l’adrenalina fa dilatare i vasi sanguigni del viso che trasportano il sangue alla pelle, attraverso un meccanismo di attacco o fuga di fronte a una minaccia, che coinvolge il sistema nervoso simpatico.
Il colore è una risposta naturale, un messaggio, un’informazione sul nostro essere al mondo e nel mondo. Comunica sempre qualcosa.


Anche lo spazio abitato, se policromo, cioè in grado di fornire più informazioni, può restituire maggiormente risposte adatte al nostro bisogno biologico, piuttosto che un ambiente di un unico colore, dove stanze uniformi – in tal caso senza informazioni – diventano scatole i cui particolari, i volumi e le dimensioni sono lette con fatica dal nostro sistema cerebrale. La monotonia, insomma, un po’ ci stressa.

Secondo Lucia Ronchi (Corth 1983) per milioni di anni i primati sono stati esposti ad una luce diurna che veniva filtrata dalla vegetazione e l’essere umano ha imparato ad abitare spazi, secondo stimoli provenienti da questo ambiente naturale temperato, ricco di una complessità visiva costituita da gradienti di luminosità, colore, texture, materia, contrasti e mutamenti. Ancora oggi valutiamo l’ambiente allo stesso modo. Pertanto la policromia progettata con adatti sistemi allogativi, che mettono in coerenza percettiva l’ambiente con oggetti, arredi, strutture, si rivela un adeguato strumento, in grado di portare equilibrio psicofisiologico alle persone.

Ogni clima cromatico ha in sé il potere di suggerire relazioni tra persone e cose, tra spazi, persone e cose, agendo anche sulla parte emotiva, affettiva. Sentire un luogo significa creare un collegamento tra il corpo e l’ambiente, consolidare quello che viene definito attaccamento ai luoghi e ciò può avvenire solo se lo spazio di cui facciamo esperienza ci comunica accoglienza, cura, rispetto, facilità di fruizione e di lettura, orientamento.
Da solo il grigio acromatico, monotono e spento, senza respiro e senza differenze, respinge ed isola. Di certo, non ci emoziona.

Riferimenti bibiografici
D. Batchelor, “Cromofobia”, B. M. Mondadori, MI, 2001
D.S. Kastan, “Sul colore”, Einaudi, TO, 2018
G. Rizzolatti, C. Sinigaglia, “So quel che fai”, Scienza e Idee, R.C.Editore, MI, 2006
V. Gallese, M. Ardizzi, “Il senso del colore. Tra mondo, corpo e cervello”, pdf
V. Lingiardi, “Mindscapes”, R. Cortina Ed., MI, 2017
P. Inghilleri, “ I luoghi che curano”, R. Cortina Ed.,MI, 2021
E. A. Abbott, “Flatlandia”, Gli Adelphi, MI, 1966
L. Ronchi, “La scienza della visione dal punto di vista delle scene naturali”, Fondazione G. Ronchi, FI
H. F. Mallgrave, “Dall’oggetto all’Esperienza: oltre la teoria”, in: INTERTWINING – 01/2018 – Lombardini 22 – Mimesis Edizioni, MI, 2018
“Dialogo tra Sarah Robinson e Vittorio Gallese” in: NTERTWINING – 01/2018 – Lombardini 22 – Mimesis Edizioni, MI, 2018
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