(di Cristina Polli) – luglio 2020
Pelle bianca, vino bianco, lenzuolo bianco, camice bianco, uovo bianco, parete bianca… Di che bianco stiamo parlando?
“I latini non avevano un termine unico per indicare il bianco e distinguevano semmai le sinestesie della luce: albus era il bianco matto e candidus quello brillante, dove l’essere brillante o meno diveniva più importante della tinta in sé. Stessa cosa nelle lingue germaniche, dove il bianco brillante era blanck, molto vicino al nero brillante black: la brillantezza era più importante della tinta, con essa, la materialità del supporto colorato e le sue prerogative nel respingere o assorbire la luce.” (M. Agnello, op. cit.)
Sappiamo che esiste una sorta di limite tra linguaggio e percezione del colore, in quanto definire attraverso le parole ciò che si sta percependo non è così facile come potrebbe sembrare. Dare delle definizioni appropriate e non generiche su un colore che si sta osservando all’interno del campo visivo, per esempio, è quasi impossibile, tant’è che utilizziamo termini come colore apparente, colore percepito o colore intrinseco, per distinguere tra colori influenzati da molteplici variabili o misurati con adeguati strumenti in grado di darci delle coordinate specifiche che ne individuino le caratteristiche psicometriche.
Le modalità in cui stiamo osservando quel dato colore in un preciso contesto/scenario, sono condizionate da un sistema complesso, che comprende aspetti percettivi, fisiologici, psicofisiologici, neuronali, biologici, culturali, cognitivi, personali… Il linguaggio si perde in meandri risolutivi solo in superficie, per poterci dar modo di comunicare agli altri ciò che stiamo pensando, ma si creano confusioni, perché tutto passa dal nostro mondo soggettivo di percepire la realtà attorno.
Allora dire che “quella parete è bianca”, diventa davvero riduttivo.
Anche ostinarsi a dare indicazioni progettuali usando “bianco” per indicare tutti i bianchi, è non solo inutile, ma anche dannoso.
Nella storia il bianco è stato denominato in vari modi, spesso derivanti dalla materia di derivazione del pigmento. Si pensi alla biacca, ovvero al carbonato basico di piombo, utilizzata fin dai tempi antichi. Essa venne bandita in Francia nel 1909 in tutti gli edifici, a causa del rischio che rappresentava per la salute pubblica, contenendo piombo, e nel 1921 parecchi stati stipularono una convenzione che ne vietò definitivamente l’utilizzo. L’Italia ratificò questa convenzione nel 1952.
Si iniziò quindi a produrre bianco di zinco, già individuato nel 1782, che divenne più economico e soppiantò la produzione di biacca. Era considerato “un bianco più scuro”; la sua prima applicazione commerciale col nome di “bianco cinese” fu un pigmento per acquerello, introdotto dai fabbricanti inglesi di colori Winsor e Newton, nel 1834.
Tra il 1916 e il 1918 alcune industrie chimiche in Norvegia e negli Stati Uniti scoprirono come produrre e purificare un ossido bianco opaco di titanio, elemento individuato dal chimico Martin Klaproth, nel 1769. Ben presto divenne il pigmento bianco dominante e nel 1945 rappresentò l’ottanta per cento del mercato.
Bianco di Titanio
Il prof. Giovanni Brino ha analizzato il naming dei colori nelle città italiane, dall’epoca barocca in avanti, sulla base di ricerche effettuate in più di 30 anni insieme a vari ricercatori in Italia, constatando che uno dei vari criteri che veniva spesso utilizzato per declinare i colori usati nelle colorazioni delle città italiane, era da riferirsi ai materiali edilizi locali, lapidei, laterizi, lignei e metallici.
“Uno dei colori generici più comuni di questa lista, ad esempio, il “Bianco” con tutte le sue declinazioni (ottenuto con il latte di calce puro) viene imposto nei cortili ristretti o nei vicoli per ragioni igieniche, per dare luce e per disinfettare. Nel Regolamento d’Ornato di Savigliano del 1842 si legge che “solo una tinta assai prossima al bianco potrà adoperarsi per tingere quei fabbricati che per causa dell’angustia delle strade difettino di luce”, e che il bianco può essere impiegato in “quei portici che si trovassero in tale stato di sudiciezza da non potersi più oltre tollerare”. Per ragioni opposte, viene proibito il “Bianco schietto” nelle vie larghe, perché potrebbe abbagliare e offendere la vista degli abitanti del lato opposto della via. Per opposte ragioni, si vieta la possibilità di impiegare colori cupi che potrebbero ingenerare oscurità.” ( G. Brino, op. cit.)
Nella ricerca di Brino si trovano: Bianco maiolica o Biancone, dal nome di un calcare biancastro cavato tra Varese e Laveno (aree del Piemonte) – Marmo bianco, dato dall’allusione al marmo di Carrara o marmo di Cenocco (biancastro) – Bianco finto marmo, bianco chiaro, bianco marmo (aree liguri) – Bianco calce – Bianco “latte di calce”, “latte di calce di Rivara dolce” – Imbianco di calce, latte di calce, imbiancamento o imbiancatura, bianco di calce dolce, con riferimento alla calce locale e al nome del luogo (aree liguri) – calcina, calcina naturale, calcina invecchiata, etc. calce macchiata di giallo…(aree senesi) – bianco di travertino cotto, bianco imitante il travertino, bianco scuro imitante il travertino, “color di marmo bianco” (aree di Roma) – Bianco stucco – Bianco di stucco o bianco stucco, stucco bianchissimo, stucco lucido – nomi generici: bianco vecchio, latte, o di latte, bianco azzurro…
Marmo di Carrara
Oggi, in ambito edilizio, abbiamo a disposizione materiali organici ed inorganici, produzioni di ogni foggia e tipologia, per ogni bisogno ed utilizzo. Compaiono su cartelle e collezioni nomi di bianco che vanno dal “burro”, al “cotone”, ad un classico “avorio”, al bianco “carta”, o “tutto bianco”, “bianco forte”, bianco abbinato al nome di una città, di nuovo “bianco calce, o “bianco gesso”… Viene da domandarsi cosa significhino tutti questi abbinamenti creativi, perché è davvero difficile immaginare un bianco burro.
Sicuramente sarà un bianco “sporcato” di giallo, ovvero un bianco cromatico, derivante da una tinta contenente del giallo.
Allora sarebbe meglio gestire il colore – mi riferisco alla progettazione e non ad altri ambiti più soggettivi e personali – attraverso un sistema chiaro, come il sistema NCS, che non metta in condizioni di dubbio chi sta comunicando e strutturando un percorso progettuale.
Proviamo a dare, comunque, qualche informazione.
1) I bianchi (come del resto neri e grigi) possono essere sia cromatici che acromatici, valutazione essenziale quando per esempio ci si riferisce alla facciata di un edificio, caratterizzata da un fondo, una zoccolatura, pieni e vuoti, elementi decorativi, fasce, cornici, balconi, etc. Le specchiature cromatiche intermedie e i colori accento dovrebbero essere dello stesso piano di tinta del colore dominante del fondo; il bianco – della fascia marcapiano o altro – quindi sarebbe cromatico. Questo eviterebbe una percezione alterata dello stesso bianco, che se usato puro e acromatico, verrebbe condizionato dai colori includenti, adiacenti, che lo modificherebbero secondo fenomeni percettivi di contrasto cromatico e consecutivo. Insomma una bella cornice bianca su fondo rossastro, ci apparirebbe scostata verso il verde…non bianca!
NCS S 2060-R fondo NCS S 0502-R particolari
Stesso piano di tinta
2) Proprio a seconda della derivazione materica alla quale appartengono, i bianchi percepiti possono essere davvero molti, quasi indistinguibili tra loro, tanto che – nel caso ci si debba approcciare ad un piano di riqualificazione percettiva a livello urbano – è necessaria una mappatura accurata di tutti i bianchi presenti sul territorio, mediante colorimetro e condurre verifiche comparative tra un colore e l’altro. Mappatura che considera anche l’ingiallimento naturale nel tempo di alcuni bianchi, che si modificano e che devono comunque essere valutati allo stato dell’arte attuale, in quanto fotografia del clima cromatico presente in un luogo.
3) Non per ultima la considerazione che ciò che vediamo come bianco è una superficie che emette la quasi totalità dell’energia luminosa ricevuta e che il bianco “assoluto” è solo teorico, poiché percepibile solamente in piena luce. Un bianco “assoluto”, tra l’altro, è abbagliante, stressante per tutto il sistema dei fotorecettori e quindi non adatto, non biologico, per l’essere umano. Locali abitati, risolti come scatole monocromatiche bianche – con pareti tinteggiate di un bianco acromatico quasi puro, non materico, senza una texture e perciò piatto – sono molto lontane da quell’ambiente rispondente ai bisogni di equilibrio psicofisiologico nei quali vorremmo stare. Ambienti con presenza di contrasti, gradienti, differenze.
Così come luoghi di cura – gli ospedali – dove è necessario riflettere sull’influenza che ha l’ambiente sulle persone, non possono essere bianchi, di qualsiasi bianco si tratti, perché questo colore non è sinonimo di igiene, ma di sterilità, asetticità, distacco, stanca gli occhi, la mente, il corpo.
C’è ancora molto, evidentemente, su cui ragionare e sperimentare nel progetto cromatico; certo l’elasticità mentale e la ricerca continua, interdisciplinare, aiutano a fare chiarezza e una nuova pagina bianca… per iniziare, non guasta.
Bibliografia di riferimento
– Brino, “Introduzione a un dizionario dei colori delle città italiane”, Colore n°68, Ott/Dic 10, XVII, IDC Colour Centre, MI
– Bottoli, G. Bertagna, “Perception Design”, Maggioli Editore, 2009
– M.Gussoni, G. Monticelli, A. Vezzoli, “Dallo stimolo alla sensazione”, Casa Ed. Ambrosiana, Gorgonzola, MI, 2006
– Brusatin, “Storia dei colori”, P.B. Einaudi, TO, 1983
– Ball, “Colore. Una biografia”, Bur, MI, 2001
– Di Napoli, “Il colore dipinto”, Bib. Einaudi, TO, 2006
– Agnello, “Semiotica dei colori”, Carocci Ed., Roma, 2013
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