(di Marianna Soddu) – aprile 2011
Sebbene lo studio scientifico del colore sia piuttosto recente, fin dai suoi albori la psicologia ne aveva intuito l’importanza: già Freud, padre della psicoanalisi, sottolineava l’importanza del colore all’interno del setting terapeutico. Per setting si intende quell’insieme di regole, oggetti, arredi e modalità di comportamento che regolano il rapporto terapeuta-paziente. A proposito di colore Freud consigliava l’utilizzo di una parete bianca o blu posta di fronte al paziente per facilitare l’emersione delle libere associa-zioni, strumento principe della psicoanalisi. Il bianco, una parete bianca, vuota, all’interno della quale il paziente può appunto “scrivere, proiettare” idee, conflitti, rimossi e in generale contenuti consci e inconsci, senza essere
“disturbato” in questa operazione da altre informazioni visive. Il blu invece è notoriamente un colore che favorisce la concentrazione e l’introiezione: il blu scuro del cielo stellato, il blu della profondità del mare come metafora della profondità della mente umana e in particolare della mente inconscia, profonda appunto, che contiene oggetti diversi e nascosti che possono “affiorare” solo in alcune situazioni, come ad esempio nei sogni.
Tuttavia, seppur fin dagli inizi della psicologia vi fu da parte di numerosi studiosi, sia in campo clinico che sperimentale, l’intuizione del potere evocativo del colore, è solo più di recente che le conoscenze sul funzionamento del cervello e del rapporto corpo-mente hanno permesso uno studio più approfondito del valore intrinseco del colore, in quanto elemento sufficiente da solo ad evocare una qualche risposta neurovegetativa e soggettivamente percepibile. Si è passati con il tempo dalla semplice intuizione ad una vera e propria massa di conoscenze scientifiche sperimentali verificabili e non determinate culturalmente.
Alla luce delle più recenti scoperte inoltre è possibile comprendere meglio il valore del colore utilizzato già da tempo nei più svariati test psicodiagnostici, costruiti a loro tempo sulla base di ricerche empiriche supportate da un’ampia validazione statistica.
Ormai noto anche al grande pubblico è oggi il test di Rorschach, il test proiettivo in cui a partire da una macchia di colore il paziente cerca di dare una forma dotata di un qualche senso: anche in questo caso il colore ricopre un’importanza fondamentale, mai disgiunta però dall’interpretazione della forma e dell’eventuale movimento. Lo shock al rosso, ossia una risposta sorpresa, infastidita o a volte francamente spaventata o addirittura negante sono indici diagnostici assai importanti al fine di inquadrare la personalità del paziente. Un altro test che ha posto al centro dell’attenzione il colore è senza dubbio il test di Luscher, che a partire dalla sensazione suscitata nell’individuo dai singoli colori è in grado di rilevare lo stato psicovegetativo soggettivo e in seconda battuta l’immagine dell’Io. È importante sottolineare però che in generale qualunque test psicologico non ha alcun valore diagnostico se non supportato dalla raccolta di altri dati di difficile inquadramento, rilevabili solo a partire da un colloquio clinico. Tuttavia tali test forniscono importanti indicazioni che possono appunto agevolare la raccolta dei dati in sede di colloquio, e in seguito gettare le basi per l’intervento terapeutico. Durante il colloquio, sia in fase diagnostica che in sede di terapia, il colore ricopre un ruolo importante a più livelli, che possiamo suddividere su una semplice linea temporale. I ricordi del passato, dell’infanzia o di altri momenti importanti per lo sviluppo della personalità e anche dell’eventuale patologia o disagio del paziente, saranno caratterizzati anche da certi colori, a volte veritieri, a volte modificati o confusi. Molti di noi possono ricordare il colore del grembiule indossato a scuola, tanto odiato proprio perché copriva la nostra libera espressione attraverso l’abbigliamento. Possiamo ricordarci in maniera anche molto vivida dei colori della nostra cameretta da bambini e “agganciare” appunto ai colori altri ricordi per noi importanti.
Ricordiamo la nostra copertina rossa, il lampadario rosa, e poi in modo spontaneo ricordiamo il volto di nostra madre da giovane, il suo odore, la sua voce mentre racconta la favola della buona notte, e poi possiamo anche ricordare quella terribile sensazione di smarrimento allo spegnersi della luce, la paura, le fantasie più terrificanti che ci venivano in mente quando dovevamo dormire. Ricordo chiama ricordo in sostanza, e questa è la dimensione del passato, che ci può aiutare a comprendere meglio il perché di certe nostre paure, timori o disagi di oggi. A partire da quell’elemento colorato ben immagazzinato in memoria possiamo agganciare veri o falsi ricordi a volte rimossi.
Nel presente ognuno di noi sa qual è il suo colore preferito, è più orientato all’acquisto di certi prodotti o capi d’abbigliamento per il loro colore, la nostra casa ha certamente un colore predominante, declinato magari in più sfumature: in questo modo possiamo dire chi siamo, cosa vogliamo, e permettiamo agli altri di ricordarsi di noi per la nostra bizzarra casa arancione o per quella cravatta blu così elegante.
Allo stesso modo possiamo pensare al nostro futuro, a come vogliamo che sia o a come temiamo che sia, dandogli un certo colore: espressione comune è “futuro roseo” o “futuro nero”. Quando una persona compra la prima casa tenderà a darle il colore che avrebbe sempre voluto, il colore con cui identifica il suo futuro, quasi come fosse un obiettivo. Questi sono semplici esempi di come l’analisi delle scelte cromatiche del quotidiano di una persona possano rappresentare importanti indici anche all’interno di un setting, elementi questi che possono emergere solo a partire da uno o più colloqui e che possono in parte orientare il lavoro terapeutico. In generale inoltre, tanto in sede di colloquio psicologico quanto nel quotidiano, l’utilizzo di termini con una qualche valenza “colorata” permette una comunicazione più agevole e immediata con l’interlocutore, che viene messo in grado di “vedere” il colore del pensiero dell’altro e dunque di comprenderne il significato profondo. Un esempio di tale meccanismo è rappresentato dalla semplice attribuzione di colore allo stato d’animo attuale della persona: se utilizziamo un colore anziché i comuni termini “bene” o “male” per rispondere alla domanda “come stai?”, potremo descrivere un maniera più vivida il nostro sentire. “Oggi mi sento bene” è un messaggio che può essere interpretato a più livelli: sto bene di salute, sono sereno, sono felice, mi sento pieno di energia, oppure può essere una semplice frase di cortesia che non rappresenta affatto il nostro reale stato d’animo. Rispondendo alla stessa domanda con un colore, ad esempio “oggi mi sento giallo, è per me una giornata gialla”, è molto più probabile che il nostro interlocutore pensi immediatamente al sole, alla luce, al calore, e quindi recepisca questo messaggio come “mi sento davvero forte, energico, felice”. Chiaramente questo è un esempio estremo, poiché nel quotidiano non utilizziamo i colori come aggettivi o avverbi, tuttavia possiamo introdurre nella conversazione tali termini sfruttandone appunto il potere evocativo. Tali considerazioni, che valgono in generale nei meccanismi di comunicazione umana, valgono tanto più all’interno di un contesto terapeutico: il terapeuta infatti, in un momento di empasse del paziente, quando il paziente non è in grado di descrivere con termini per lui soddisfacenti il proprio sentire, può appunto suggerire l’introduzione del colore come forma espressiva che possa fare da ponte fra l’intrapsichico e la comunicazione verbale.
Nei precedenti articoli si è già detto dell’influenza che i colori hanno sul nostro stato neurovegetativo: dunque se la terapia è una sorta di contenitore protetto del quotidiano allora compito di un buon terapeuta-osservatore è anche quello di includervi il colore, che spesso le persone identificano come il colore della loro anima, nel presente, nel passato e nel futuro.
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